domenica 15 novembre 2015

Abolire l'appello, la vera riforma

 

Molti commenti al mio intervento sul Fatto del 31 ottobre (“Garantiti come noi nessuno mai”) hanno riguardato la separazione delle carriere fra pm e giudice e il processo d’appello. Il primo tema vorrei impostarlo adattando all’indipendenza della magistratura una frase di Calamandrei sulla libertà: “È come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”.
  
Il magistrato italiano che abbia la schiena dritta, l’indipendenza la respira e la vive come elemento naturale. Per contro, la realtà di tanti altri paesi è diversa. Anni fa, incontrando a Vienna alcuni pm anticorruzione, li trovai in un momento di grande  euforia per una novità giudicata “rivoluzionaria”. Dipendevano dal ministro della Giustizia e le direttive di questi andavano  pur sempre osservate: ma gli “ordini”– ecco la grande novità – dovevano essere impartiti con atto scritto da inserire nel fascicolo processuale. Il fatto (sintomatico di una certa mancanza… d’aria) mi viene in mente quando  si discute  di separazione delle carriere. Perché questa è praticamente sinonimo di dipendenza del pm dal potere esecutivo: nel senso che in tutti i paesi in cui (con modalità che possono essere  diverse)  c’è la separazione, il pm – per legge – deve ottemperare a ordini o direttive. Vale a dire che poco o tanto, per un verso o per l’altro,non è indipendente. Sicuramente non è mai indipendente come nel nostro Paese.

È vero: ciò accade, senza scandalo né scompensi, anche in paesi di autentica e robusta  democrazia. Perché? Perché la classe politica possiede anticorpi capaci di isolare ed espellere le “mele marce”; capaci (per parafrasare Piercamillo Davigo) di allontanare dalla tavola coloro che vengono scoperti a rubare le posate, senza che possano  continuare a banchettare come niente fosse e senza attendere un’eventuale condanna penale definitiva.

Viceversa è proprio questo, purtroppo, che spesso succede da noi. E allora, se con la separazione delle carriere si finisce per conferire, a una classe politica che continua a “ospitare” al suo interno soggetti fortemente ambigui se non peggio, il potere  di condizionare o pilotare le indagini penali – che so – per fatti di corruzione o mafia, quando si sa che in tali fatti possono essere spesso implicati anche politici, l’opzione della separazione equivale a un suicidio. E la domanda finale è questa: conviene o no alla democrazia? Qualcuno (lo so bene) obietterà che anche Falcone era per la separazione. Ma le sue riflessioni riguardavano, più che la separazione delle “carriere”, la separazione delle “funzioni” fra pm e giudice: soluzione ontologicamente diversa, che ormai il nostro sistema ha adottato.

SECONDO TEMA. Sui problemi della giustizia italiana grava un macigno, un arretrato colossale: circa nove milioni di cause fra civile e penale. Se non ci si libera da questo peso, qualunque riforma rischia di fallire.
Occorrono scelte radicali e la mia idea è abolire il grado di appello. Innanzitutto perché fra tutti i paesi di democrazia occidentale che hanno un sistema processual-penale di tipo accusatorio (com’è diventato anche il nostro a partire dal 1989) siamo l’unico che ha più gradi di giudizio, invece dell’unico grado – con eventuale possibilità di ricorrere a una corte suprema – che altrove è pratica – mente la regola. È una questione di sistema, che non si risolve tenendo i piedi in due staffe.

Poi perché con l’abolizione dell’appello si potrebbe appunto sperare di cancellare l’arretrato. Se i magistrati e il personale amministrativo oggi impiegati in appello fossero destinati a lavorare soltanto sull’arretrato, questo sparirebbe in due/tre anni.

Dopo di che i magistrati e il personale amministrativo del “defunto” appello potrebbero essere convogliati sul primo grado, accelerando i tempi del processo che, con un grado in meno, sarebbero già di per sé molto abbreviati. Così, l’altro gravissimo male della nostra  giustizia, la durata interminabile dei processi,  avrebbe finalmente qualche  prospettiva di miglioramento

La mia idea – mi rendo conto – è assolutamente minoritaria, osteggiata da un bel po’ di gente (gli avvocati soprattutto), con l’argomento che diminuirebbero le garanzie. Ma la vera, autentica garanzia uguale per tutti sta in un processo breve che possa puntare a una giustizia certa. Non in un processo che è diventato un percorso a ostacoli, pieno di trabocchetti, infarcito di regole che in realtà non sono garanzie ma insidie formali, opponibili a piene mani da chi – potendosi permettere difese agguerrite e costose – punta all'impunità attraverso la prescrizione. Mentre sono di fatto arretrate le garanzie verso il basso, vale a dire effettivamente applicate anche ai soggetti più deboli.

Giancarlo Caselli (Il Fatto, 7.11.2015)

(by Nicola)

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